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Quando a Bra c'erano gli Alpini: la vita militare raccontata da Flavio Russo

BRA

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FIORELLA AVALLE NEMOLIS - Non si definisce storico, bensì cantastorie: il cheraschese Flavio Russo è snocciolatore accattivante di cultura, sostenuto da inesauribile memoria e da ironico linguaggio.

Flavio, fammi fantasticare sul passato con le tue rimembranze!

"La mia parte terronica si sente orgogliosa, ma quella piemontese, precisa, esageruma nen!”. Concordiamo per l'argomento: “Quando a Bra le penne nere facevano parte del paesaggio”.

Quanto è durata l'invasione pacifica delle penne nere?

“Dopo la guerra, nel 1949 mio padre, il maresciallo Sigismondo Russo, sottufficiale amministrativo, fu inviato dagli alti comandi di Torino ad istituire il protocollo della Trevisan e delle altre tre caserme di Bra. Nel settembre 1975, fu il comandante braidese Giorgio Burdese, per disposizione ministeriale, a chiudere definitivamente il reparto di Bra”.

Cosa rappresentavano gli alpini nel paesaggio urbano braidese?

“Prova ad immaginare millecinquecento penne, di gallina, di corvo, d'oca e d'aquila, che svettavano sul cappello di una vistosa e costante massiccia umana in divisa color grigio verde. Ogni sera millecinquecento ragazzi giovani, pazzi di divertimento, si riversavano in bar, trattorie, cinematografi, tabaccherie e case di piacere. Era una pioggia di denaro immensa che cadeva sulla città. Aggiungi la spesa fondamentale delle stesse caserme per provvedere al loro mantenimento, oltre al lavoro di circa duecento borghesi che si occupavano della sopravvivenza dei militari. Quando nel 1975 è stata chiusa la caserma Bra ha subito una crisi economica spaventosa”.

Com'era articolato quel colossale edificio di via Umberto?

La caserma Trevisan, detta “Car” (centro addestramento reclute), in seguito divenuta “Bart” (battaglione addestramento reclute taurinense), era suddivisa in quattro compagnie: la Saluzzo, la Pinerolo, l'Aosta, e la compagnia di comando, che rimaneva a Bra per occuparsi di amministrazione, mentre le altre si fermavano solo per i tre mesi di addestramento. Si distinguevano tra loro con i quattro colori, bianco, blu, rosso e verde delle nappine, le minuscole palline dette familiarmente bale, in cui erano fissate le penne".

Quale ignota sorte toccava a quegli sprovveduti giovani futuri alpini, appena varcato l'androne del Trevisan?

"Appena varcata la soglia, subito tutti e millecinquecento nella attrezzatissima barberia, con dieci poltrone, dove per una settimana prestavano la loro opera anche i barbieri di altre città. Un rito iniziatico, immagina le scene di disperazione e addirittura i pianti dei capelloni degli anni sessanta - settanta. La rasatura, praticata con attrezzi simili ad un tosaerba, era impietosa. Alla rasatura seguiva il rito del vaccino polivalente, la cui formula è sconosciuta, iniettato direttamente nel petto dalla parte sinistra. Era una pratica barbara, alcuni svenivano, però dopo diventavano invulnerabili alle malattie. Seguiva la distribuzione del vestiario: era un corredo nuovo completo, invernale ed estivo, comprese le calzature, zaini, fucili, che l'alpino finiti i tre mesi di addestramento portava con sé. Non sempre le taglie delle divise corrispondevano, così i malcapitati, si rivolgevano alle sarte del paese per apportare le modifiche”.

Com'erano alloggiate le reclute?

“Nelle enormi camerate, il primo insegnamento era come rifare la branda: un processo difficilissimo, racchiudere nel materasso, cuscino, lenzuolo, coperta, in modo che risultasse come un cubo perfetto. Tutto doveva essere uniforme, le scarpe appese in un certo modo, lo zaino appeso e rivolto in un certo senso. Poi, due volte alla settimana, tutti di corsa in fila sotto la doccia, a turno cento per volta. Poi iniziava l'istruzione: per un mese avanti e indietro nel cortile della caserma, tutto il giorno, finché il plotone al comando di sinist dest sinist dest , non marciava all'unisono. Alcune reclute non distinguevano la destra dalla sinistra, così gli legavano una benda colorata alla gamba sinistra, quella che inizia la marcia”.

Quando si passava all'uso delle armi?

“Prima c'erano le lezioni teoriche sul fucile e sulla bomba a mano, poi raggiungevano, quasi sempre a piedi, le Rocche di Pocapaglia dove c'era il poligono per il tiro col fucile. Sempre a piedi da Bra, raggiungevano il fiume Stura per il lancio della bomba a mano. Da Cherasco durante l'addestramento, durava tutto il giorno, risuonava il frastuono dell'esplosione di 1500 bombe, sembrava di essere in guerra".

E come si distribuivano i pasti?

"Solo negli anni a venire ci fu il self service, io dell'epoca rammento la gavetta e il gavettino, un baracchino, grosso sotto e uno piccolo sopra. A pranzo nella parte sotto un'abbondante razione di pastasciutta, e sopra il secondo che variava, con carne o pesce e un mezzo litro di vino”.

Altri aspetti della naja?

“La vita dei braidesi che vivevano nel quartiere intorno alla caserma era scandita dallo squillo di tromba, non sempre degno di Nini Rosso, alle 5 d'estate, alle 6 d'inverno, e alle 22,30 per la ritirata. Andava peggio ai poveri figli dei militari che vivevano in caserma, a cui si aggiungeva il tormentone dei "un dué, un dué, passo, passo, cadenza!”.

Com'era gestita la posta, all'epoca, unico mezzo di comunicazione?

La corrispondenza tra militari e famiglia era molto fitta, il postino consegnava di migliaia di lettere. Negli anni cinquanta- sessanta si contavano ancora molti analfabeti, tanto che nella caserma c'era una scuola elementare di recupero, così dopo 18 mesi i militari si congedavano con la licenza di scuola dell'obbligo”.

Un piccolo aneddoto curioso?

“Mio padre, il maresciallo Russo, per le reclute analfabete si prestava, su dettatura e con molti suggerimenti, a scrivere lettere alle morose e, poiché le medesime erano altrettanto analfabete, venivano indirizzate al parroco del paese, il quale consegnava e leggeva loro la corrispondenza”.

Come si concludevano i corsi di addestramento?

"Con l'ultima domenica dei tre mesi, quando millecinquecento alpini, alzando il braccio, urlavano “lo giuro”: era un tuono da fare tremare le mura della caserma. La cerimonia del giuramento, richiamava tutta la città, comprese le migliaia di parenti giunti da ogni dove, tant'è che ultimamente si svolgeva in piazza Carlo Alberto, perché più ampia. Dal giorno dopo, la città era impoverita e silenziosa. Il fermento si concentrava alla stazione ferroviaria, dove i millecinquecento imbranati come foche (così li chiamavano i caporali) trasformati in alpini, salivano sulle tradotte con il proprio bagaglio, destinati ai loro reggimenti. Un mese dopo, il tempo necessario per rimettere in moto la complessa macchina della caserma, ne sarebbero giunti altri millecinquecento”.

Flavio conclude: “Questa è la vita militare raccontata da un riformato, miope, presbite, astigmatico, figlio del maresciallo Russo, indispettito perché in famiglia tutti gli uomini sono stati tiratori scelti, con 11 decimi di vista.

Fiorella Avalle Nemolis

(Foto dall'Archivio di Giampiero Ciancia)

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